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Ci può essere un figlio anche dopo un tumore

Ci può essere un figlio anche dopo un tumore

In Italia, ogni anno, oltre 3 mila donne si ammalano di tumore al seno, quando sono ancora in età fertile. Ma la diagnosi non significa necessariamente che non potranno più avere figli. In molti casi è possibile crioconservare gli ovociti o il tessuto ovarico e ora c’è il modo di proteggere le ovaie dalla chemioterapia. Si possono anche interrompere le cure ormonali per una breve finestra temporale per tentare una gravidanza. E sappiamo che allattare al seno non sembra aumentare i rischi di recidiva. Tutte queste possibilità esistono oggi grazie alla ricerca accademica italiana. Che è stata pioniera in questo campo già 25 anni fa, quando l’oncologia era più incentrata sulla cura del tumore che non sulla cura della persona.

Le aspettative delle giovani

Lucia Del Mastro, ordinaria di Oncologia Medica all’Università di Genova e direttrice della Clinica di Oncologia Medica del Policlinico San Martino, è stata tra le prime al mondo a chiedersi che cosa si potesse fare affinché le terapie non compromettessero le aspettative delle giovani donne con un tumore al seno. Una linea di ricerca cominciata nel 2000 e che ha portato a cambiare la pratica clinica per la preservazione della fertilità, non soltanto per chi ha un tumore del seno. Soprattutto, a cambiare la mentalità del mondo dell’oncologia.

Un lavoro pionieristico

Guarire da un cancro non vuol dire soltanto non avere più la malattia, ma avere le stesse prospettive delle persone che non si sono mai ammalate. “Questo era il principio che ci ha mosso. Non essendo un filone di ricerca sponsorizzato dall’industria farmaceutica – racconta Del Mastro – l’unica possibilità per portarlo avanti era trovare dei finanziamenti altrove. È vero, il nostro lavoro era pionieristico, ma lo è stata anche la visione di Fondazione Airc, che ci ha sostenuto, accettando la sfida in un'epoca in cui la fertilità non era certo considerata una priorità in oncologia”.

L’intuizione di Del Mastro è stata quella di utilizzare un farmaco che mette a “riposo” le ovaie (un analogo dell'Lhrh) per proteggerle dalla tossicità dei trattamenti. La chemioterapia, infatti, colpisce maggiormente i tessuti in replicazione attiva, con l’effetto collaterale di indurre la menopausa precoce in circa un quarto delle pazienti. “Nel 2001 – spiega la professoressa – è partito il primo studio di fase 2 su 30 pazienti e, con nostra sorpresa, abbiamo osservato che oltre il 90% delle donne tornava ad avere il ciclo mestruale. Grazie a questi risultati, e sempre con il supporto di Fondazione Airc, abbiamo potuto condurre lo studio di fase 3, che ha coinvolto ben 16 centri italiani e che ha confermato una netta riduzione dell'incidenza della menopausa indotta da chemioterapia. Non è tutto: dopo il tumore, le donne di quello studio trattate con gli analoghi dell’Lhrh avevano avuto il doppio delle gravidanze rispetto alle altre”.

Risultati eclatanti

Due risultati così eclatanti da essere pubblicati, nel 2011 e nel 2015, sul Journal of the American Medical Association (Jama): a dimostrazione di quanto quella ricerca fosse importante per tutta la medicina, e non solo per l’oncologia. Sempre nel 2015, l’American Society of Clinical Oncology (Asco) l’ha inclusa tra i progressi più significativi.

“Al di là dei risultati – riprende Del Mastro – credo che la ricaduta più importante di questa ricerca sia il suo contributo a un cambiamento culturale. Ricordo lo scetticismo durante i primi congressi in cui presentavo i risultati. Tra le obiezioni, veniva detto che non si potevano caricare le donne anche del problema della fertilità nel momento in cui veniva comunicata una diagnosi così grave. Che questo avrebbe avuto un impatto emotivo negativo. In realtà le giovani donne sono molto più spaventate dal futuro che dalla chemioterapia. Se diciamo loro che dopo le cure potranno avere ancora dei figli, quale credete che sia l’impatto emotivo? È tutt’altro che negativo”.

Così l’Italia, con l’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom), è stata tra i primi Paesi al mondo a redigere delle linee guida sulla preservazione della fertilità – di cui Del Mastro è coordinatrice – e il nuovo protocollo è incluso anche nelle linee guida internazionali, comprese quelle dell’Asco appena aggiornate.

Ma la ricerca sulla fertilità e la gravidanza dopo il cancro non si è arrestata e ha contribuito a scardinare altri tabù, anche per le donne con le mutazioni Brca (le cosiddette “mutazioni Jolie”). Con lei c’è Matteo Lambertini (del Policlinico San Martino e dell’Università di Genova) che, grazie a un grant Airc per i giovani oncologi, studierà l'effetto sulla fertilità delle nuove terapie.

La Repubblica

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